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L’‘allitterazione della solitudine’ in Virgilio

In: AION (filol.) Annali dell'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"
Author:
Paolo Dainotti Dipartimento di Asia, Africa e Mediterraneo, Università di Napoli ‘L’Orientale’ Naples Italy
Corpus Christi College Oxford UK

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Abstract

The article focusses on a particular type of ‘pathetic alliteration’ in Virgil’s poetry which links the adjective solus with words strictly related in meaning. By means of a detailed stylistic analysis of passages from Aeneid, Eclogues and Georgics the author demonstrates the stylistically motivated use of this kind of alliteration and shows how sound effects are usually combined with other stylistic figures charging the diction with expressiveness.

Virgile aimat sentir la solitude

Roiron 1908, 1665

Virgilio sottolinea col suono i suoi pensieri

G. Pascoli, Lezioni 1905–1906

1 Premessa metodologica

Quando si parla di Pathetisierung, cioè di quell’insieme di strategie testuali intese a ‘patetizzare’ la dizione,1 gli effetti di suono non possono essere ignorati in sede di analisi stilistica. Proprio come nella colonna sonora di un film ci sono motivi ricorrenti che segnalano determinate emozioni – si pensi all’akmé di suoni cupi di alcune scene dell’orrore – così in poesia è possibile identificare un impiego espressivo e talora ‘patetico’, cioè emotivo, dei suoni. Virgilio, un creatore di linguaggio dotato di una spiccata ‘immaginazione uditiva’, un poeta che “sottolinea col suono i suoi pensieri”,2 ci offre degli esempi paradigmatici di una continua ricerca di espressività,3 che sfrutta anche e soprattutto raffinati effetti di suono.4 Accade così che il suono non solo influenzi la collocazione e l’organizzazione delle parole nel verso, ma ne detti persino la selezione, intesa in alcuni casi a creare catene allitteranti.5

Bisogna, tuttavia, ricordare che quando si parla di espressività, e in particolare di espressività dei suoni, si entra in un campo minato, dove le notazioni stilistiche appaiono in molti casi viziate da un eccessivo grado di soggettività6 o da ingenue semplificazioni.7 In mancanza di un metodo certo, che possa corroborare e confermare una lettura stilistica, si rischia, quindi, di dover rinunciare ad un’analisi dei suoni, mentre in realtà le figure di suono, proprio in virtù del loro essere ‘figure’, cioè gesti linguistici intesi ad un effetto, rientrano a buon diritto nelle strategie testuali dell’autore; non è un caso, del resto, se nella tradizione esegetica del testo virgiliano esse sono sempre state considerate come un elemento per nulla marginale. Insomma, se varie comunità di lettori virgiliani, antichi e moderni, riconoscono nell’impiego dei suoni una motivazione stilistica, è giusto continuare ad indagare questo aspetto, a patto di adottare una corretta prospettiva metodologica.

In primo luogo, non si deve cedere alla tentazione di volere identificare sempre e ad ogni costo un effetto o pretendere che una figura di suono – nella fattispecie ci occuperemo in questa sede di allitterazione8 – veicoli sempre il medesimo effetto stilistico. In alcuni casi, infatti, gli effetti possono essere persino opposti;9 non mancano poi casi nei quali le allitterazioni non possono essere considerate espressive, ma sono semplicemente casuali.

Innanzitutto, per l’allitterazione è preferibile restringere il campo di indagine all’omologia dei fonemi iniziali (anche fra termini non necessariamente contigui),10 un criterio fondamentale per evitare che il fenomeno risulti pressoché ubiquitario e, quindi, stilisticamente irrilevante. L’allitterazione, come qualsivoglia figura di stile, produce, infatti, un effetto stilistico solo se costituisce in maniera chiara uno scarto dalla norma, perché è appunto la ‘deviazione’, l’evidente rarità di un fenomeno, a colpire il lettore provocando un senso di straniamento e invitandolo così a soffermarsi sulla particolare forma dell’espressione e sul suo contesto d’impiego.11 A ciò si aggiunga che un’allitterazione ‘insistita’ o ‘martellante’ (come si usa dire in stilistica), cioè che si estende su tre o più parole, dovrà considerarsi, per la sua maggiore rarità e in virtù dell’addensamento del fenomeno, l’evidente spia di una ricercata vibrazione espressiva.

Ma è la semantica del contesto e delle parole legate da allitterazione l’aspetto più significativo in sede di analisi stilistica, in quanto fondamentale per orientare correttamente l’interpretazione di una qualsivoglia figura stilistica in termini di effetti: è per il senso, per rafforzarlo e sottolinearlo, che il poeta fa ricorso, più volte e in passi comparabili per semantica, ad una determinata figura stilistica (o ad un determinato suono).12 Nel caso dell’allitterazione, che, come è noto, può svolgere varie ‘funzioni’,13 l’omologia di suono istituisce anche legami di significato,14 che possono essere espressivi soprattutto quando le parole interessate sono afferenti allo stesso campo semantico o comunque quando sottolineano il medesimo concetto. L’allitterazione, che può dirsi allora anche ‘tematica’, in quanto sviluppata intorno ad una parola ricorrente particolarmente pregnante,15 svolge una funzione ‘affettiva’ o ‘patetica’,16 quasi che il poeta rimarcando un concetto con il suono voglia imprimerlo nella mente del lettore, suscitandone una reazione emotiva.17

L’allitterazione è, del resto, una figura di suono, ma anche e soprattutto di ripetizione, ripetizione acustica ovviamente – ma non solo, se si pensa che la ripetizione di fonemi è spesso realizzata mediante una ripetizione lessicale, come, ad esempio, l’anafora o il poliptoto –,18 ed è ben noto che la ripetizione sia una tra le più efficaci strategie di costruzione del pathos (pathos de repetitione).19

In questo articolo intendo soffermarmi su un’allitterazione patetica in Virgilio, l’‘allitterazione della solitudine’, cioè quella intesa a rafforzare la semantica dell’aggettivo solus20 attraverso un legame allitterante con termini correlati per semantica.

A differenza degli studi meramente quantitativi sull’allitterazione,21 mi soffermerò sui contesti d’impiego, per valutare se tale figura concorre con altre a caratterizzare in senso patetico un brano. Quasi sempre, infatti, non è una singola figura a caricare il testo di espressività, ma una studiata convergenza di fattori espressivi,22 tra i quali il suono è un aspetto non trascurabile. Insomma, cercherò di evidenziare come l’allitterazione della solitudine non sia casualmente distribuita nella poesia virgiliana, ma sia impiegata in funzione espressiva e generalmente in passi altamente patetici.

Analizzerò questa allitterazione tematica sia dal punto di vista della semantica sia degli effetti di suono. Da un punto di vista semantico, va osservato in primo luogo che il ‘termine-guida’ dell’allitterazione della solitudine, l’aggettivo solus, di per sé caratterizzato da un accento emotivo, in Virgilio è spesso sintomaticamente associato ad altri termini che ne sottolineano e rafforzano ulteriormente la semantica.23 Da un punto di vista del suono, invece, il σιγματισμός24 si presta a vari effetti iconici – può ricalcare il sibilare del serpente o di una lancia,25 il fragore del mare o un lieve sussurro26 – e, più interessante per la nostra trattazione, nei discorsi diretti può suggerire una dizione ‘a denti stretti’,27 come nel celebre verso (476) della Medea di Euripide nel quale l’eroina rinfaccia a Giasone di averlo salvato: ἔσῳσά σ᾽, ὡς ἴσασιν Ἑλλήνων, ὅσοι (‘ti ho salvato, come sanno quanti dei Greci …’).28 È utile a tal proposito riportare la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso, che in de comp. uer. 14, 8 Us., discutendo le qualità delle lettere dell’alfabeto, osserva:

il sigma è un suono sgradevole e, quando abbonda, dà un forte senso di angoscia. Sembra addirsi più ad una voce ferina che a quella di un essere raziocinante; alcuni tra gli antichi lo impiegano con moderazione, ma ve ne sono anche altri che scrivono intere poesie senza sigma.29

Insomma, per gli antichi il σιγματισμός poteva avere un valore iconico-mimetico, che, come vedremo, caratterizza molti dei passi virgiliani interessati dall’allitterazione della solitudine.

2 Analisi dei testi

Inizieremo la nostra analisi da un passo altamente patetico, Aen. 9, 481–483:30

hunc ego te, Euryale, aspicio? tune ille senectae
sera meae requies, potuisti linquere solam,
crudelis?

La madre di Eurialo, sconvolta alla vista del capo del figlio divelto dal corpo, prorompe in uno straziante lamento funebre.31 In questo esempio paradigmatico di oratio pathetica s’addensa nell’arco di pochi versi tutta una serie di figure stilistiche che meritano di essere analizzate nel dettaglio.32 Al primo verso il pronome dimostrativo (hunc) è concordato al pronome personale di seconda persona (te) in maniera del tutto eccezionale33 per sottolineare lo sgomento della madre, che non vuole credere al tragico mutamento del figlio e si rivolge a lui in una serie di sconsolate domande retoriche.34 L’accostamento pronominale ego te riflette il legame emotivo tra madre e figlio,35 mentre l’allocuzione al figlio morto, un tratto ricorrente nelle lamentazioni funebri, inserita come è in una domanda retorica, vuole essere quasi il disperato invito della donna ad essere smentita sulla realtà di quella situazione per lei dolorosamente inaccettabile. L’accostamento tune ille segnala poi lo iato incredibile tra la condizione passata e quella presente, una metabolé quasi tragica, che rende difficile e doloroso il riconoscimento del figlio straziato.36

Anche il ritmo concorre a conferire un accento patetico al verso: l’accumulo di sinalefi, che oscurano le pause metriche (fino alla eftemimera) e potenziano la corsa dattilica (che caratterizza anche il verso successivo), sembra suggerire la voce rotta della donna.37

La seconda interrogativa retorica presenta poi una sintassi tortuosa, tormentata, che è icona dello sconvolgimento emotivo, come appare evidente nell’impiego del pronome ille (concordato a tu) in luogo dell’atteso illa da riferirsi al femminile requies, che costituisce un’‘apposizione patetica’: “tu, quello che eri il tardo riposo della mia vecchiaia”.38 Potuisti ha il valore patetico di ‘hai osato’, linquere è un simplex pro composito, un uso letterario e poetico che contribuisce ad innalzare il livello stilistico (così come senecta in luogo di senectus al verso successivo), mentre crudelis assume un rilievo particolare, rigettato com’è all’inizio del verso successivo39 a chiudere l’interrogativa con una vibrazione patetica, una tecnica, questa, particolarmente cara a Virgilio.40

È all’interno di questo ricercato contesto espressivo che va valutata la triplice allitterazione dei termini senectae / serasolam, già messi in rilievo, all’inizio e alla fine del verso, dall’iperbato ‘a intarsio’ (abab) e dall’enjambement. L’aggettivo solam, per il quale si deve sottintendere il personale me (o il sostantivo matrem),41 si lega per effetto dell’omologia di suono (e per la similarità di collocazione) ai due termini in allitterazione in una nuova unità che potremmo definire ‘associazione fono-semantica’: nell’immaginazione uditiva di Virgilio questo legame rafforza l’idea della solitudine nella tarda vecchiaia. In un passo così ricercato, dove, come mi sembra di aver dimostrato, ogni singola parola ha un suo peso e una sua funzione espressiva, appare evidente come questa catena allitterante sia altrettanto espressiva, o meglio patetica, intesa com’è a conferire alla dizione un ulteriore, suggestivo accento emotivo.

A conferma di ciò si possono citare altri casi di allitterazione della solitudine, come, ad esempio, georg. 3, 466–469:

medio procumbere campo
pascentem et serae solam decedere nocti,
continuo culpam ferro compesce priusquam
dira per incautum serpant contagia uulgus.

Anche qui, in un passo patetico, dove Virgilio conferisce ad un animale sentimenti tutti umani (la pecora ammalata, destinata ad essere colpita dall’allevatore, si attarda da sola nel campo), l’aggettivo solam, isolato tra due cesure maschili, ha un rilievo particolare. L’allitterazione con l’aggettivo isosillabico e isoprosodico giustapposto (e evidenziato dalla pentemimera) sera concorre a rafforzare l’idea della solitudine dell’animale, che torna all’ovile mentre scende la notte.42 Al verso successivo la triplice allitterazione della gutturale (continuo culpamcompesce) conferisce, infine, perentorietà didascalica al comando.

In altri casi solus allittera con termini che rafforzano l’idea della solitudine. È così, ad esempio, nell’egloga 10, una composizione innervata da un pathos elegiaco:43 Gallo, poeta e simbolo della poesia d’amore, soffre per l’abbandono dell’amata Licoride; e l’emotività si traduce anche e soprattutto a livello delle forme espressive, come appare evidente in ecl. 10, 46–49:

tu procul a patria (nec sit mihi credere tantum)
Alpinas, a! dura niues et frigora Rheni
me sine sola uides. a, te ne frigora laedant!
a, tibi ne teneras glacies secet aspera plantas!

Un lettore educato a percepire quelle increspature espressive che veicolano il pathos non mancherà certamente di notare la rarissima anastrofe di sine,44 qui motivata dall’allitterazione con sola.45 L’espressione me sine sola, evidentemente pleonastica, è carica di affettività, impiegata com’è in un passo che vuole forse essere una mimesi letteraria della lingua di Gallo (per Servio si tratta di una vera e propria translatio di versi),46 sia per il motivo elegiaco della preoccupazione per le sorti dell’amata infedele, sia per l’impiego dell’interiezione a, un cliché linguistico della poesia neoterica,47 ripetuto qui tre volte in tre versi successivi, nei quali abbonda la vocale /a/, quasi a segnalare l’angoscioso affanno del poeta.48

L’allitterazione della solitudine è impiegata da Virgilio ancora in un contesto altamente patetico in Aen. 5, 613–617:

at procul in sola secretae Troades acta
amissum Anchisen flebant cunctaeque profundum
pontum aspectabant flentes. heu tot uada fessis 615
et tantum superesse maris, uox omnibus una;
urbem orant, taedet pelagi perferre laborem.

Le donne troiane, in occasione dei giochi funebri in onore di Anchise,49 si ritirano sulla spiaggia a piangere il defunto, e, guardando l’immensa distesa del mare (si tratta del motivo patetico del ‘lamento sull’acqua’)50 che le separa da casa, stanche per il lungo viaggio, sono assalite da una struggente malinconia. Anche qui, in un contesto fortemente espressivo, l’allitterazione ha la funzione di legare ulteriormente gli aggettivi sola secretae (già giustapposti a cavallo della pentemimera), suggerendo un implicito legame semantico:51 le donne non sono solamente ‘appartate’ nella spiaggia, ma sono anche ‘sole’, non accompagnate dai loro uomini, intenti alle celebrazioni gioiose dei giochi in onore di Anchise. L’effetto dell’allitterazione, che catalizza l’attenzione del lettore sui due aggettivi, è, inoltre, potenziato da una leggera, ma comunque efficace, duplice enallage: solae possono essere infatti le donne e secreta la spiaggia.52

La ricercatezza acustica del passo, tuttavia, non si limita all’allitterazione della solitudine, ma ad una serie di sofisticati effetti fonici. Non può sfuggire al lettore/ascoltatore anche l’allitterazione in /a/, che incornicia il primo verso ed è replicata anche nei versi successivi associata alla sinalefe – amiss(um) Anchisen – pont(um) aspectabant – con il probabile effetto di suggerire angoscia e l’idea di un lamento strozzato, mentre il pesante ritmo spondaico dei versi 614–615 ben si attaglia all’atmosfera luttuosa.53 Che Virgilio stia ricercando questa ‘allitterazione dell’angoscia’54 è confermato da una deviazione, per così dire, lessicale, cioè dall’impiego del termine, tanto raro quanto ricercato, acta (in luogo del più comune harena), un grecismo, questo, che il poeta sembra selezionare per dare seguito alla catena fonica:55 potremmo dire con il Traina che il suono ha selezionato la forma. E ancora un’allitterazione evidenzia i termini profundum / pontum, separati in enjambement: la pausa di fine verso ‘sospende’ l’aggettivo profundum sottolineandone la semantica, con l’effetto di suggerire lo sguardo perso delle donne dinanzi alla sconfinata distesa del mare,56 che appare come qualcosa di immenso, spaventoso, indecifrabilmente mutevole, come suggerito dall’avvicendamento di tre termini sinonimici in tre versi contigui.57 Stilisticamente rilevante è, inoltre, la ripetizione (tecnicamente una ‘participial resumption’)58 delle forme verbali flebant e flentes – nella medesima sede metrica, tra le due cesure maschili, dei due versi contigui – in allitterazione con fessis, in rilievo in fine di verso. I Romani non amavano particolarmente il suono /f/ (ce lo dice Quintiliano, inst. 12, 10, 29), ed è forse proprio per questo motivo che Virgilio sembra destinarlo, come qui, ad effetti stilistici speciali.59 Va notato, inoltre, l’impiego dell’interiezione patetica heu60 (in rilievo dopo la eftemimera) e del cosiddetto infinitivus indignantis (tot uada superesse), un costrutto spesso patetico, che qui converge con il discorso indiretto, contrassegno dell’empathy virgiliana.61

Mi sembra evidente come solo il contesto d’impiego, analizzato nei suoi aspetti ‘micrologici’ e a vari livelli (metro, suono, sintassi, lessico), sia in grado di confermare, con relativa certezza, una funzione espressiva dell’allitterazione.

Al passo appena commentato possiamo accostare georg. 4, 464–466:62

ipse caua solans aegrum testudine amorem
te, dulcis coniunx, te solo in litore secum,
te ueniente die, te decedente canebat.

Orfeo ha perduto l’amata Euridice e s’abbandona ad un canto infelice, disperato, senza fine. Il poeta per caricare di espressività patetica questa scena ricorre ad un efficace concentus di differenti fattori espressivi. La quadruplice anafora del pronome personale te (ad inizio di verso e dopo pentemimera), che dà ritmo e struttura ai due versi, è anche “icona delle continuità del canto”,63 dell’ossessiva, disperata ricerca di Orfeo nei confronti della moglie, ormai perduta per sempre. Contrassegni del pathos sono qui chiaramente l’apostrofe alla defunta64 e l’aggettivo dulcis, che in Virgilio esprime spesso, come qui, un senso di malinconia per qualcosa di irrimediabilmente perduto.65 A ciò si aggiunga il topos già omerico del ‘lamento sull’acqua’, associato qui (la convergenza può ovviamente riguardare anche temi e motivi)66 al ‘τόπος della continuità’ o ‘East / West τόπος67 nell’espressione polare ueniente-decedente. È in questo ricercato contesto stilistico che va valutata l’espressività dell’allitterazione, che, legando i termini solo-secum, “intensifica la corrispondenza fra la vasta solitudine del paesaggio e la disperata solitudine dell’amante”.68 Traina, nella sua fine analisi del passo, considera giustamente ‘calcolata’ questa allitterazione, anche alla luce del parallelo di georg. 1, 388–389:69

tum cornix plena pluuiam uocat improba uoce
et sola in sicca secum spatiatur harena.

sebbene qui l’allitterazione sia leggermente differente, in quanto unisce due termini sintatticamente correlati (l’aggettivo sola e il riflessivo secum sono entrambi concordati al soggetto) e soprattutto concorre a creare una catena allitterante più complessa, che ha dato luogo a diverse interpretazioni. Per alcuni l’insistito sigmatismo sarebbe iconico del gracchiare della cornacchia,70 ma in mancanza di passi paralleli con il medesimo valore tale lettura resta, a mio avviso, poco più che una suggestione (non mi risulta che il sigmatismo abbia altrove la funzione di imitare questo suono). Non è da escludere che Virgilio, in un passo costellato da allitterazioni (accanto al sigmatismo anche plena-pluuiam e uocat-uoce, che è anche figura etymologica), abbia voluto ironicamente ‘ipercaratterizzare’ l’immagine della cornacchia, che, umanizzata,71 incede con solenne, esagerata magnificenza.72 L’allitterazione avrebbe in questo caso una funzione ‘letteraria’ piuttosto che iconica, richiamando, con sottile ‘ironia metaletteraria’, lo stile epico, del quale era appunto un tratto caratterizzante.73

Tornando alla tautologia sola + riflessivo, che rafforza l’idea della solitudine, va notato che questo pleonasmo è ancora impiegato in una catena allitterante in Aen. 4, 460–468:

hinc exaudiri uoces et uerba uocantis 460
uisa uiri, nox cum terras obscura teneret,
solaque culminibus ferali carmine bubo
saepe queri et longas in fletum ducere uoces;
multaque praeterea uatum praedicta priorum
terribili monitu horrificant. agit ipse furentem 465
in somnis ferus Aeneas, semperque relinqui
sola sibi, semper longam incomitata uidetur
ire uiam et Tyrios deserta quaerere terra

Si tratta di un passo patetico, angoscioso, nel quale si alternano realtà e immaginazione, allucinazione e sogno. Didone, sconvolta dal proposito di Enea di abbandonarla, ode le parole del defunto Sicheo, che la chiama a sé, ode il canto lugubre della civetta, e un ricordo di spaventosi presagi riaffiora alla sua mente. In sogno, è inseguita da un Enea feroce, che le dà quasi la caccia, ed è poi abbandonata, sola, nella desolazione della sua terra deserta. La solitudine, il Leitmotiv dell’intero passo, caratterizza già la figura della bubo, che sembra anticipare, col suo canto lugubre, le afflizioni di Didone. Evidenti i parallelismi verbali: sola in allitterazione con l’avverbio di tempo saepe (poi con semper), l’aggettivo longam ripetuto in longas a distanza di pochi versi. Virgilio impiega il termine bubo al femminile, e non come di consueto al maschile, per sottolineare questo parallelismo.74 Nella descrizione di Didone l’idea della solitudine è evidenziata dalla quadruplice allitterazione dall’effetto patetico,75 che unisce il nesso sola sibi con l’anaforico semper (qui la ripetizione dell’avverbio ne sottolinea iconicamente il senso),76 ed è rimarcata dalla semantica dei termini relinqui, incomitata, deserta. Incomitata, parola pregnante (riferita com’è a Didone, il cui comitatus era un tratto distintivo della regalità), è messa in rilievo dalla sinalefe, che ha l’effetto di oscurare la eftemimera e di creare una parola lunga, long(am) incomitata (icona del lungo vagare della regina), e soprattutto dalla collocazione nel verso, per cui la cesura, o meglio ‘quasi-caesura’, sembra cadere sul prefisso negativo (in/comitata), sottolineando l’idea della mancanza e della solitudine.77 Non c’è un passo nell’Eneide con un tale addensamento di termini afferenti a questa sfera semantica.

Alla fine di questa breve rassegna sull’allitterazione della solitudine possiamo chiederci se essa costituisca un’innovazione virgiliana o se piuttosto sia possibile rintracciare dei modelli nella poesia precedente. L’aggettivo solus è impiegato nel pleonasmo con se(cum), e anche in catene allitteranti, già da Plauto,78 ed è ripreso, con maggiore intensità lirica, da Catullo,79 un poeta che, del resto, per questioni di stile e di lingua, fa spesso da trait d’union tra commedia e poesia alta,80 ed è sovente, come qui, un modello per Virgilio. In un verso come Cat. 64, 57:

desertam in sola miseram se cernat harena

è possibile, infatti, ravvisare un chiaro modello per i passi virgiliani finora commentati81 per tutta una serie di aspetti: il nesso sola se, l’enallage ‘personificante’,82 il termine harena in fine di verso, il motivo del ‘lamento sull’acqua’ e dell’eroina regale che si vede sola. Il verso di Catullo, per via della sua struttura in sé conchiusa e dell’addensarsi in chiave espressiva dei termini afferenti al campo semantico della solitudine e del pathos, non può non aver colpito la sensibilità poetica di Virgilio, che ripropone lo stilema allitterante impiegando l’aggettivo solus in nuove, suggestive allitterazioni patetiche.

Ringraziamenti

Nella stesura di questo articolo molto mi hanno giovato i preziosi suggerimenti dei professori Stephen Harrison, Alexandre Pinheiro Hasegawa e Amneris Roselli e dei revisori anonimi.

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1

Per un approccio alle strategie del pathos in Virgilio si vedano Conte 2007 e 2021, 9–25 e Dainotti 2022, 87–141.

2

Si tratta di un’osservazione riportata nelle lezioni inedite del Pascoli degli anni 1905–1906 e 1907. Vedi Traina 1989, 103, nota 50.

3

Sull’espressività della poesia virgiliana e in particolare dell’ordo verborum si veda Dainotti 2015.

4

La bibliografia sugli effetti stilistici del suono nella poesia latina è ricchissima. Per un primo approccio bastino Marouzeau 19462, 17–86, Wilkinson 1963, 25–65 e Herescu 1960, mentre su Virgilio, oltre al monumentale studio di Roiron 1908, sulla imagination auditive, particolarmente utili sono le osservazioni di Jackson Knight 19662, 296–308 e di La Penna 2005, 458–472.

5

Il criterio dell’eufonia può spiegare non solo la selezione delle parole, ma anche la loro grafia – celebre la discussione di Probo, riportata da Gellio (13, 21), sull’alternanza delle forme degli accusativi plurali di terza declinazione del tipo urbis-urbes (vedi Traina 1999, 151–154 con bibliografia) –, e persino la creazione di neologismi ascrivibili al desiderio del poeta di creare allitterazioni. Su questo aspetto, in particolare nella poesia plautina, si veda ancora Traina 1999.

6

Si vedano le osservazioni di Horsfall 1995, 224 (“Discussion of sound and alliteration plunges too often into a uolutabrum of excited sentimentality”) e Hardie 1998, 110 (“Modern readers should beware of an overly subjective interpretation of Virgilian sound effects”).

7

Semplificazioni che, come nota Wilkinson 1942, 121, hanno portato ad un certo scetticismo nei confronti delle analisi stilistiche.

8

Sull’allitterazione in Virgilio si vedano i lavori (con bibliografia) di Ferrarino 1939, Cordier 1939 e Ceccarelli 1986 (sulla particolare allitterazione ‘a vocale interposta variabile’), l’appendice sulla figura al commento di Fordyce 1977, 289–291, il bilancio di De Rosalia 1984, 113–116 e le osservazioni di von Albrecht 2012, 196–198 e La Penna 2005, 463–472; per lo status quaestionis (anche al di fuori degli studi classici), esaustivo Traina 1999, 11 e soprattutto 75, nota 82; per la terminologia delle varie tipologie di allitterazione, Hofmann e Szantyr 2002, 31–34.

9

È quanto notato da più studiosi, come, ad esempio, Ferrarino 1939, 62–63, Eden 1975, ad Aen. 8, 2 e La Penna 2005, 464.

10

È questo l’approccio, tra gli altri, di La Penna 2005, 548, nota 5, e Traina 1999, 11 e 75, nota 82.

11

Per una discussione sui concetti di ‘norma’ e ‘scarto’ (quest’ultimo definibile anche come ‘deviazione’, ‘scelta stilistica’ o ‘punto distinto’) si vedano Segre 1985, 72–73 e Conte 2007, 61–62; sui concetti moderni di defamiliarisation e foregrounding, Jeffries e McIntyre 2010, 30–67.

12

Dainotti 2015, 18. Per quanto riguarda l’allitterazione, va, inoltre, osservato che la semantica contribuisce a incrementare la percettibilità della figura. Vedi Calcante 2022, 245.

13

È preferibile il criterio della ‘funzionalità’ di una figura rispetto a quello dell’ ‘intenzionalità’ (vedi Traina 19912, 129, nota 22.). Si veda anche l’utile discussione di metodo (per l’analisi fonostilistica) di Calcante 2002, 238, che distingue tra ‘intenzionalità’ e ‘pertinenza stilistica’, quest’ultima da valutare in base al criterio della ‘percettibilità’.

14

Si tratta del ben noto concetto di ‘omosemia fonetica’, una felice acquisizione della critica strutturalista, per cui “le associazioni foniche generano associazioni semantiche”, come nota Traina 1999, 11 (con bibliografia).

15

Ceccarelli 1986, 98–101 dedica un paragrafo alla ricorsività dell’allitterazione di alcune parole-chiave. Tra le allitterazioni tematiche possiamo ricordare ‘l’allitterazione dell’esilio’ (vedi La Penna 1990, 64–72), cioè l’allitterazione del prefisso ex- (o della vocale /e/ quando sia anche solo percepita dai parlanti alla stregua di prefisso, come nel termine egenus) in contesti nei quali è evidente la semantica di un allontanamento forzato (expulsus, exul); e ancora quella oraziana costruita a partire dall’aggettivo dulcis (alcuni esempi in Ferrarino 1939, 10, nota 1), per la quale proporrei la definizione di ‘allitterazione della dolcezza’.

16

La categoria del pathos è ricorrente nelle notazioni stilistiche sull’allitterazione. Su Virgilio si veda De Rosalia 1984, 115 e soprattutto Ceccarelli 1986, 101–121. Questa funzione ‘patetica’ è particolarmente sfruttata nei discorsi diretti, come appare evidente anche dagli esempi catulliani citati da Ronconi 1953, 35.

17

Ronconi 1953, 33–34: “Una forma d’allitterazione ‘espressiva’ è infine quella che tende a sottolineare il sentimento di pathos da cui un brano può essere pervaso, fissando più vivo nell’orecchio il suono delle parole cui l’idea di pathos è associata”.

18

Sul rapporto tra allitterazione e figure retoriche, si veda l’utile discussione di Valesio 1967, 32–195.

19

Pathos de repetitione è una categoria del pathos virgiliano trattata da Macrobio in Sat. 4, 6, 24.

20

Su solus in Virgilio si veda Lenaz 1988, 933–934, sulla solitudine nell’età augustea, nelle sue implicazioni sociologiche, psicologiche e letterarie, il recente volume di Kachuck 2021 (con due capitoli dedicati a Virgilio).

21

Che richiedono un approccio metodologico serio nella selezione dei dati e nella loro interpretazione. Cfr. Greenberg 1980, 585–611 (con dati sull’allitterazione in Virgilio e Lucrezio). In uno studio stilistico l’approccio ‘quantitativo’ è, per così dire, propedeutico rispetto a quello ‘qualitativo’, che non si ferma al mero dato, ma piuttosto se ne serve come indispensabile punto di partenza per analizzare lo stile di brani selezionati o di singoli testi. Vedi le osservazioni di Oniga 1994, 118 e la discussione di Jeffries e McIntyre 2010, 172–173.

22

Su questo concetto chiave della stilistica, non estraneo alla teoria antica – Longino, ad esempio, dedica il capitolo XX del suo trattato Sul sublime all’effetto patetico di più figure stilistiche – si veda Conte 2007, 99. È importante tener conto di questo aspetto, perché, come nota Harrison 1988, 412, a proposito dell’allitterazione, “it is easy to lay too much stress on the phenomenon one is pursuing, and not to see it as one small part of a whole stylistic system”.

23

Lenaz 1988, 934.

24

Gli antichi definivano l’allitterazione della sibilante anche polysigma. Vedi Lausberg 1969, 254.

25

Ovviamente non solo in latino. Vedi Lausberg 1969, 255, che cita un celebre verso dell’Andromaque di Racine (5, 5, 1628 pour qui sont ces serpents qui sifflent sur vos têtes?) come esempio di allitterazione “con intenzione descrittiva”, o ancora Segre 1985, 61 (con esempi da Dante e Pulci).

26

Sugli effetti stilistici del σιγματισμός si veda lo studio di Michel 1953; per altra bibliografia, Dainotti 2015, 49, nota 167.

27

Soubiran 1961, 39, a proposito del σιγματισμός di Aen. 4, 379–384, osserva che l’addensarsi anomalo delle sibilanti suggerisce una voce “rapide, tendue, sifflante”. Vedi anche Jackson Knight 19662, 303 (“the violent concentration of s expressing hatred in the thoughts of Aeneas about Helen, and in the words of Dido to Aeneas”).

28

Vedi Wilkinson 1942, 130 (e ancora Wilkinson 1963, 54), che include il passo tra gli esempi di ‘expressive mouth-gesture’.

29

Se tale giudizio riflette la pratica dei poeti greci, in particolare degli Alessandrini (vedi Clayman 1987, 69–84), bisogna anche osservare che la dottrina fonoretorica può a sua volta influenzare la prassi poetica; ciò accade soprattutto in età imperiale, quando nelle scuole di retorica (nelle quali si formavano anche i poeti), oltre al discorso oratorio, si insegnava anche l’arte del discorso poetico (Calcante 2002, 248).

30

Per le Bucoliche e le Georgiche ho seguito il testo di Ottaviano e Conte 2013, per l’Eneide, Conte 20192.

31

Si tratta di un lamento funebre che presenta tratti comuni con la lamentazione rituale greca. Vedi La Penna 1983, 326–340.

32

Per un’analisi dettagliata del passo nel suo più ampio contesto cfr. Dainotti 2022, 87–141.

33

Vedi Hardie 1994 e Williams 1973, ad loc.

34

Secondo Macrobio (Sat. 4, 2, 3), brevi interrogative possono conferire un accento patetico alla dizione. Anche i lettori moderni sono dello stesso avviso. Si veda, ad esempio, Hardie 1994, ad Aen. 481–497 (“four lines of indignant questions to Euryalus”) e Barchiesi 1978, 102, a proposito del lamento di Giuturna (Aen. 12, 869–886). Sulle interrogative retoriche nei monologhi impiegate quando il parlante stenta o non vuol credere ad un evento doloroso si veda Traina 1955, 81 e Hofmann 20033, 190.

35

Vedi Ricottilli 2000, 90. Wiltshire 1989, 53 nota che in 3 delle 7 occorrenze nell’Eneide questa giustapposizione è impiegata per sottolineare la dolorosa separazione dovuta ad una morte.

36

Secondo Aristotele (Poet. 1452 b), l’anagnorisis è, insieme con la peripeteia e il pathos, un elemento del racconto tragico.

37

Ho dimostrato il valore iconico di questo tipo di sinalefe, che spesso riflette la rottura della voce del parlante – è detta anche ‘gasping synaloepha’ (Horsfall 2006, ad Aen. 3, 523) – in Dainotti 2015, 166–175 (173 su questo passo).

38

Hardie 1994, ad loc.: “The unexpected agreement of ille with tu rather than with requies focuses the cruel awareness of the difference between what he was and what he is now”.

39

La Penna 1983, 326–327 sottolinea inoltre “l’accostamento di solam e crudelis: l’uno amplificato in fin di verso, l’altro staccato all’inizio”. Semantica, metro, sintassi: tutto contribuisce all’espressività del passo.

40

Vedi Dainotti 2015, 118–121. Simile espressività in Aen. 4, 310 s. et mediis properas Aquilonibus ire per altum, / crudelis?, ancora in una scena di doloroso distacco (Didone rinfaccia ad Enea di volerla abbandonare).

41

La brachilogia è un altro tratto del parlare emozionale. Vedi Hofmann 20033, 160–178.

42

Page 1898, ad loc. ben evidenzia anche l’effetto del ritmo: “the sound of the two balanced spondees suggests dejection”.

43

Sulla presenza dell’elemento elegiaco nell’egloga come strategia di generic enrichment, vedi Conte 1979, 377–404 e ora Harrison 2007, 34–74.

44

Due casi in Lucrezio (1, 213 e 4, 1173), due nelle Satire di Orazio (1, 3, 68 e 5, 99) e quattro in Virgilio, il quale, oltre che nel citato ecl. 10, 48 (meno significativo georg. 1, 161 quis sine), impiega l’anastrofe ancora con un pronome personale (te sine) in altri due passi fortemente patetici: georg. 3, 42 ss. (invocazione solenne di Virgilio a Mecenate) e Aen. 12. 882 s. (doloroso commiato di Giuturna dal fratello Turno). Sull’anastrofe di sine e sine me, vedi rispettivamente Clausen 1994 e Cucchiarelli 2012, ad ecl. 10, 48.

45

Cucchiarelli 2012, ad loc. Per Weber 1975, 156 (citato da Clausen 1994, ad loc.), l’anastrofe me sine sarebbe uno stilema della poesia di Gallo.

46

Hi autem omnes versus Galli sunt de ipsius translati carminibus. Coleman 1977 e Cucchiarelli 2012, ad ecl. 10, 46–49 osservano che Servio probabilmente si riferisce proprio ai versi 46–49, che costituiscono un gruppo unitario prima del nuovo movimento sintattico introdotto al verso 50 dal verbo ibo.

47

Che questa interiezione patetica (associata generalmente allo σχετλιασμός) abbia un’ascendenza catulliana e neoterica è confermato dalla sua distribuzione non casuale nelle opere virgiliane (9 volte nelle Bucoliche, 2 nelle Georgiche, mai nell’Eneide) e dal fatto che i poeti augustei preferiscono l’altrettanto patetica heu (34 occorrenze nell’Eneide). Vedi Lepre 1985, 993 e in particolare Marchetta 1994, 317–341.

48

Vedi Cucchiarelli 2012, ad loc. (« Si osservi l’intensa cadenza patetica, segnata dal susseguirsi delle esclamative e dall’insistenza fonico-ritmica sulla /a/ »).

49

Per una fine analisi del passo e per il motivo patetico della ‘stanchezza per un lungo viaggio’, si veda La Penna 1997, 52–69, che rintraccia alcuni plausibili modelli nella storiografia ‘patetica’ greca e latina.

50

Il motivo è già omerico (es. Il. 1, 348–350 e Od. 5, 156 ss.), poi divenuto parte del repertorio dell’epillio neoterico (Cat. 64, 53 ss.) ed elegiaco (Prop. 1, 15, 9–10). Vedi Thomas 1988, ad georg. 4, 319 e Biotti 1994, ad georg. 4, 465.

51

Anche Williams 1960, ad loc. osserva che l’allitterazione sottolinea l’idea della solitudine.

52

Sul potenziale espressivo dell’enallage, imprescindibile il saggio di Conte 2007, 58–122; questo caso è per certi versi simile al più celebre Aen. 6, 268 ibant obscuri sola sub nocte per umbras, dove l’enallage dell’aggettivo sola è ‘personificante’ (per la definizione, Maurach 1990, 65), cioè attribuisce caratteri e sentimenti umani ad esseri inanimati, come in alcuni dei casi che commenteremo.

53

La Penna e Grassi 1971, ad loc.

54

Così La Penna 1983, 323–325 definisce questo tipo di allitterazione in /a/ associata a termini indicanti angoscia o affanno (angor, aeger, anhelitus).

55

La Penna 1997, 54: “Non mi riesce facile capire perché Virgilio l’abbia scelto; avanzerei, tuttavia, la congettura che l’abbia scelto per marcare l’allitterazione dell’angoscia”. Come specifica La Penna, il termine acta, impiegato nell’epica classica solo qui e in un passo di Valerio Flacco (ad imitazione di Virgilio), doveva avere forse un sapore esotico. Il raro grecismo è stato, infatti, anche interpretato come un elemento di realismo mimetico: per La Penna e Grassi 1971, ad loc. (ma il commento dei passi del quinto libro è a cura di C. Grassi), forse il grecismo per “la sua forma dorica (ἀκτά, ion.-att. ἀκτή: il dorico prevaleva fra i Greci di Sicilia), può essere un tratto di colore locale”. Si dovrà tuttavia obiettare che a parlare sono le donne troiane.

56

La Penna 1997, 55.

57

Paratore 1978, ad loc.

58

Wills 1996, 311–325.

59

Williams 1962, ad Aen. 3, 145.

60

Su heu si veda Lepre 1985, 994–995.

61

La Penna 1997, 55.

62

Il professor Alexandre Pinheiro Hasegawa mi segnala anche ecl. 2, 4 s. ibi haec incondita solus / montibus et siluis studio iactabat inani, un passo fortemente patetico, dove la catena allitterante sembra evidenziare l’immagine di Coridone che, solo (solus in fine di verso) e tutto compreso nella sua passione d’amore (studio), vaga per le selve, quei loca sola per antonomasia che gli amanti infelici dovrebbero evitare (come suggerisce Ovidio in rem. 579–608).

63

Traina 1998, 80, con analisi stilistica del passo e breve storia dello stilema te ueniente – te decedente, da Cinna a Silio Italico. Si veda ora anche la trattazione di Gagliardi 2019, 129–144.

64

Sul valore patetico dell’apostrofe si veda Traina 1970, 110 (con bibliografia), che sottolinea il largo impiego della figura in poesia latina (quasi cento casi in Virgilio) rispetto ai modelli greci (eccezion fatta per i poeti alessandrini); sull’apostrofe ad un defunto vedi anche Tarrant 2012, ad Aen. 12, 538.

65

Traina 1998, 80, nota 12 (con bibliografia).

66

Lo nota già Macrobio, in Sat. 4, 4, 19.

67

Per queste definizioni si vedano, rispettivamente, Manzoni 1995, 33 e Cairns 2006, 98.

68

Biotti 1994, ad loc. Vedi anche Traina 1998, 77 (“Lo spazio è la solitudine del lido e dell’uomo, associati dall’allitterazione solo / secum”).

69

Traina 1998, 77, nota 2. Un parallelismo (soprattutto verbale) tra i due passi è notato anche da Thomas 1988, ad georg. 1, 388–389.

70

Paratore 1955, ad loc.: “nota l’accavallarsi delle s, che, sebbene si trovi nella frase che descrive i movimenti della cornacchia, serve a rendere ancor meglio l’effetto del canto sgraziato di quest’uccello”.

71

Thomas 1988, ad loc.

72

Page 1898, ad loc. nota “the solemn stateliness of sound produced by sola sicca secum spatiatur”. Lo stesso effetto è osservato da Winbolt 1903, 158, che cita il verso tra gli esempi di allitterazione che esprimono grandezza e dignità.

73

La Penna e Grassi 1971, ad loc.: “spatiari si dice spesso del camminare o incedere solenne […]: qui ha probabilmente un intento umoristico, quasi di parodia epica, come mostra anche l’allitterazione, che era frequente specie nello stile epico solenne e arcaizzante”.

74

In quasi tutti i casi commentati l’aggettivo solus è riferito ad un soggetto femminile, quasi che la solitudine, nell’universo poetico di Virgilio, si attagli con maggiore pathos alle figure di donne. È un fatto, del resto, che in un poema come l’Eneide, il cui protagonista è caratterizzato dalla solitudine, Virgilio non impieghi mai per il suo eroe l’aggettivo solus e altri sinonimi. Vedi Lenaz 1988, 933.

75

Vedi La Penna e Grassi 1971, ad loc.

76

Vedi Nänny e Fischer 2006, 468: “the iteration of adverbs such as ‘again’ or ‘oft(en)’ performatively reinforces their meaning”.

77

Sulla ‘quasi caesura’, detta anche ‘cesura in tmesi’ o ‘incisione attenuata’, vedi Dainotti 2015, 203, nota 624 (con bibliografia).

78

Ad esempio in Amph. 954 mirum quid solus secum secreto ille agat e Aul. 52 at ut scelesta sola secum murmurat!.

79

Vedi Perutelli 1980, 71: “Nel carme 64 viene conferita nuova intenzione espressiva al nesso solus se, che fin dalla commedia aveva goduto di una certa fortuna nella poesia latina”.

80

Sul riuso di Plauto da parte di Catullo si veda Agnesini 2004 (che però non analizza l’espressione solus se).

81

L’episodio catulliano di Arianna, come dimostrato da Perutelli 1980, 69–73, costituisce inoltre un modello per l’Orfeo virgiliano.

82

Come nota Perutelli 1980, 72, “Secondo una modalità già ellenistica, la natura risponde con un atteggiamento di perfetta consonanza allo stato d’animo del protagonista e si fa anch’essa sola perché ad ogni particolare della scena sia attribuita la condizione di Arianna”.

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